Quelli che restano

 
UNA “COSPIRAZIONE DEL SILENZIO”
La luce oltre la siepe

Di Patrizia Borrelli - Psicologa Psicoterapeuta Sistemico Relazionale

Li chiamano survivors, in italiano sopravvissuti, quelli che restano dopo la morte per suicidio di un proprio caro, amico o conoscente. Una morte, che non tutti comprendono. Ancora oggi, per molti, un argomento tabù e per il quale il sopravvissuto, non di rado si sente incompreso e marchiato a fuoco. Sono molti i fattori che incidono sulle reazioni e sulle modalità di pensiero, che vengono sperimentate dalla persona in lutto. Ciascun individuo infatti fa, della perdita, un’esperienza soggettiva, influenzata non poco dal contesto. Basti pensare che i componenti di una stessa famiglia, attraversata dall’esperienza del suicidio da parte di un proprio caro, vanno incontro a reazioni diverse, a seconda della propria capacità di affrontare i momenti critici, come la differenziazione, la separazione, la perdita e la sofferenza. Una competenza appresa nel nucleo familiare, a seconda delle esperienze fatte al suo interno, del suo stile, ma condizionata anche dal contesto sociale.

Nella nostra società esiste ancora oggi nei confronti del suicidio, un forte pregiudizio, che non fa altro che alimentare una “cospirazione del silenzio”, una negazione che affatica ancora di più l’elaborazione della perdita da parte di chi rimane, costringendolo alla solitudine. Il suicidio, infatti, nonostante sia una delle dieci principali cause di decesso nei paesi industrializzati, è ancora un concetto quasi innominabile, causa di stigma per i sopravvissuti, che in molti casi si trovano a sentirsi in dovere di tenere per sé quella, che appare come una “vergogna sociale”. In obbligo di celare la causa della morte del proprio caro, fatta passare per accidentale o conseguenza di una malattia, quasi fosse un’onta, privandosi così della libertà di espressione del proprio vissuto emotivo e del diritto di ricevere solidarietà e sostegno da parte della collettività, aggiungendo sofferenza a sofferenza ed inficiando l’elaborazione e la risoluzione di questo difficile lutto. Un lutto, che ancora più di altri, influenza il modo di stare in relazione al prossimo e ne è, a sua volta, influenzato. La “volontarietà” che caratterizza il suicidio, genera in chi sopravvive, l’emergere di alcune domande, i “perché”, “se avessi, se non avessi”, (Charmet, 2009), che crea in chi rimane, una condizione di dolore travolgente. Sono tante le reazioni che ci possono essere dopo il lutto, che hanno a che fare con la dimensione emotiva, cognitiva e comportamentale, qui ne vedremo alcune. A proposito dei fenomeni cognitivi, è esperienza diffusa la tendenza a pensare intensamente alla persona che non c’è più e a come poterla riavere con sé.

Caspar David Friedrich, Due uomini davanti alla luna (1819-20)

Spesso, specie nei primi tempi, vengono riportate allucinazioni. Il sopravvissuto racconta di avere la sensazione di avvertire la presenza della persona cara, di sentire la sua voce, o di vederla nei luoghi familiari. Fa fatica a concentrarsi e si sente destabilizzato ed incredulo di ciò che è successo. Può succedere che si avverta il bisogno di isolarsi e di perdere interesse per il mondo esterno, per le attività quotidiane. Alcune persone tendono ad evitare i ricordi del defunto, per la paura di esserne sopraffatti emotivamente, con il rischio di affaticare ed in alcuni casi addirittura di impedire l’elaborazione della perdita. È possibile che affiorino comportamenti insoliti, quasi bizzarri, involontari, senza che la persona ne abbia il controllo e nei quali fa fatica a riconoscersi, perché opposti a quello che fa solitamente. Nelle prime settimane dopo la perdita è pressoché normale avere difficoltà del sonno e che l’illusione di poter stare con la persona defunta, porti a sognarla insistentemente e, nella veglia a chiamarla a voce alta. La perdita della persona cara, porta inevitabilmente con sé un’onda emotiva, che può generare affaticamento mentale e fisico, un senso di struggimento, così prevalente soprattutto nei primi tempi, insieme alla nostalgia ed alla tristezza, che si manifestano in modalità differenti a seconda della persona che li sperimenta.

Chi sopravvive, prova un senso di impotenza e la paura di non riuscire a farcela da soli e di non essere capace di stare al mondo senza il proprio caro. Spesso a seguito della notizia del decesso, ci si sente confusi, scioccati, intorpiditi e per alcuni quasi anestetizzati emotivamente, anche a distanza di diverso tempo dall’accaduto. La perdita improvvisa, è inaspettata, violenta e questo fa pensare a chi resta di non aver fatto abbastanza per impedire il decesso, generando forte rabbia verso di sé e spesso verso il defunto, per averlo lasciato solo. Un’emozione quella della rabbia, indicibile perché considerata sbagliata e poco rispettosa verso chi non c’è più e che fa sentire, chi la sperimenta inadeguato, giudicato negativamente ed in colpa. Una colpa che in alcune situazioni va a sommarsi a quella di essere sopravvissuti e che disorienta, genera vergogna, tanto da non chiedere o rifiutare l’aiuto offerto da parte di chi gli sta vicino e da sfuggire alla propria compassione. Ne consegue quello che potremmo definire un circolo vizioso fatto di vergogna, auto-stigmatizzazione, bisogno di mantenere il segreto sul suicidio ed isolamento, che amplifica la stigmatizzazione. Un lutto, quello per suicidio, che si differenzia dagli altri per intensità delle emozioni, in cui la perdita della persona cara, solitamente causa una reazione più profonda e protratta nel tempo, ma che, nella migliore delle ipotesi, con il supporto di un esperto, l’adesione a gruppi terapeutici, attingendo alle proprie risorse personali, ambientali ed al sostegno da parte delle persone vicine, può andare incontro ad una risoluzione, che porta il sopravvissuto a ricollocare la persona defunta in uno spazio nuovo e a continuare a vivere, seppur con una cicatrice nel cuore, a recuperare l’organizzazione personale della propria esistenza ed a raggiungere nuovi equilibri relazionali. Ma perché tutto ciò possa realizzarsi, è necessario legittimarsi nel chiedere aiuto, solamente così sarà possibile riprendere in mano la propria vita, nel ricordo del proprio caro.

Bibliografia

• Charmet P. G. (2009), Uccidersi. Il tentativo di suicidio in adolescenza, Raffaello Cortina editore
• Marchetti T. (2012), La famiglia di fronte alla perdita. Centro HT.
• Schutzenberger A., A., Jeufroy B. E., (2009), Uscire dal lutto: superare la propria tristezza e imparare di nuovo a vivere, Renzo Editore

Patrizia Borrelli

Sono nata a Milano, città nella quale lavoro. Mi occupo di famiglie, coppie, adulti e adolescenti. Fin da bambina sono una grande osservatrice delle persone, che alimentano la mia curiosità verso il loro modo di comunicare, di stare in relazione con l’ambiente circostante ed i propri sistemi di appartenenza, rapita e affascinata dall’originalità di ciascuno. Negli anni, ho trasformato questa mia attitudine, nel mio lavoro clinico di ascolto e supporto terapeutico. Conduco e coordino supervisioni cliniche individuali e di gruppo, secondo l’approccio Sistemico Relazionale. Curo contenuti di divulgazione scientifica a tema psicologico per L’albero della Psicologia, il mio profilo Instagram, per canali web, riviste scientifiche e sono autrice di podcast per L’albero della Psicologia Podcast, il mio canale. Una passione per la materia, che mi accompagna ogni giorno nell’incontro con i miei pazienti, con i quali proviamo a scrivere una storia diversa. Cardine del mio lavoro, è la convinzione secondo cui, gli individui abbiano dentro di sé le risorse e le capacità per superare la fase di stallo in cui si trovano e tornare ad essere attori sociali.

Il Portale L’albero della Psicologia