Da 22 anni convivo con la perdita di mio padre, suicidatosi il 24 novembre 1997. Francesco aveva 39 anni. Quel giorno fece da spartiacque per la mia vita e il mio futuro, scelsi di iscrivermi a psicologia e di dare aiuto a chi ne avesse bisogno, perché non si ripetesse più la parola fine per nessun’altra persona.
Mio padre amava le moto e andare a bere al pub con gli amici, spesso rubava il mio motorino per tornare ragazzino e farsi dei giri in libertà per la città. Inoltre aveva una forte passione per gli orologi Swatch, ogni volta che ne usciva uno lui subito si recava a comprarlo. Quello è stato il suo ultimo acquisto.
La domenica eravamo soliti andare in montagna a fare il pic-nic, ricordo che erano i momenti più belli perché tutta la famiglia si riuniva, genitori, zii, figli e cugini. Mio padre aveva pochi momenti di tenerezza a casa perché sempre a lavoro, ma nel bosco ritornava bambino e ci stringeva forte. Amava la vita a modo suo ne sono sicura, perché aveva tanta gente intorno che cercava la sua presenza e la sua simpatia.
“Tacete, non è morto, non dorme! Si è destato dal sogno della vita”. (Percy Bysshe Shelley)
Sono coloro che hanno perso una persona cara, un parente o un amico a causa di un gesto suicida. Dove c’è un suicidio c’è un survivor, anzi, secondo Shneidman (1972) per ogni suicidio ci sono più o meno 6 o 10 survivors che hanno sperimentato un evento traumatico di enorme portata. I survivors sono candidati ad uno stress che avrà pesanti conseguenze sul funzionamento individuale, relazionale, sociale e lavorativo.
Ogni anno sono più di 800 mila le persone che muoiono a causa del suicidio, in media si registra una morte ogni 40 secondi. Il fenomeno riguarda in particolare i giovani: il suicidio è la seconda causa di morte tra i 15 e i 29 anni.